Che cosa hanno in comune una delle più grandi Banche al mondo, la britannica HSBC, il colosso dei video giochi Tencent, la più grande azienda energetica cinese, PetroChina Company, Alibaba e Lenovo?
Facile: la piazza di quotazione delle loro azioni, che non è Londra, e neppure New York, ma Hong Kong, una piccola isola che nel tempo ha inglobato anche una parte della penisola cinese di fronte a lei, ma che vanta, oltre ad una sviluppata economia, anche la quinta borsa al mondo, più grande anche di quella inglese.
Hong Kong è oggi un centro finanziario dal quale non si può prescindere: grazie ad una economia di libero mercato con bassa imposizione fiscale, possiede anche una delle borse più antiche di tutta l’Asia, che da più di cento anni fornisce ossigeno a buona parte dell’economia cinese. Quell’economia che, per intenderci, con notevole pragmatismo, viene definita “offshore”.
Da colonia britannica a “rifugio”
Già dall’ epoca coloniale l’isola è sempre stata il centro finanziario e commerciale più importante di tutto il lontano oriente. Dopo la costituzione della Repubblica di Cina (1912) ha raccolto gli esiliati provenienti dal continente e durante la guerra col Giappone sulle sue coste sono sbarcati centinaia di migliaia di rifugiati.
Riconquistata dagli inglesi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, questo continuo arrivo di cinesi dal mare procurò a Hong Kong mano d'opera, contribuendo alla rapida crescita dell'industria, soprattutto quella manifatturiera.
Lo sviluppo economico trasformò Hong Kong in una delle regioni più ricche e produttive dell'Asia. Fu così che dagli anni 70 il numero di rifugiati cinesi aumentò, mentre negli anni 80 iniziarono ad arrivare anche quelli del Vietnam.
Nel 1982, visto che la fine del periodo del controllo britannico sui cosiddetti “New Territories” si avvicinava, la Cina e la Gran Bretagna diedero inizio alle trattative per deciderne il futuro.
Così, tramite un accordo bilaterale firmato a Pechino nel 1984, la Cina promise che, sotto la formula di "un Paese due sistemi", il regime economico socialista cinese non sarebbe stato applicato ad Hong Kong, con la promessa di rispettare per 50 anni il sistema legale esistente prima del cambiamento di sovranità. La Cina si sarebbe occupata, però, della politica estera e della difesa del territorio.
L’accordo prese davvero forma solo nel 1997 e da questo momento decorrono i 50 anni durante i quali, dopo il passaggio da protettorato inglese l’Isola è di fatto una delle due regioni amministrative speciali nella sfera di influenza di Pechino (l’altra è Macao)
“Handover”: la consegna. Il traguardo del 2047 e la Greater Bay Area
Dal primo luglio del 1997 è così nato ufficialmente anche il mercato cinese offshore di Hong Kong, ed ogni giorno che è passato, da allora, ha anche contribuito all’ ulteriore sviluppo di Pechino che, nonostante l’interconnessione mondiale, rimane la principale destinazione dell’export e ne intercetta circa la metà del commercio totale.
Però il 2047 è dietro l’angolo e il benessere conquistato da Hong Kong potrebbe non rimanere per sempre.
La Cina continentale considera particolarmente minacciose le proteste che stanno scuotendo Hong Kong, dato soprattutto il ruolo della città a livello internazionale. Pechino teme infatti che tale apertura al resto del mondo possa favorire le spinte centrifughe che attraversano Hong Kong sin dalla sua “cessione” da parte del Regno Unito. Dilemma: qualsiasi compromesso troppo poco stringente potrebbe creare un precedente che rischierebbe di estendersi alle relazioni con molti altri territori contesi, come Macao, Taiwan, Tibet, Xinjiang e Mongolia interna; d'altra parte, altrettanto rischioso sarebbe far finta che nulla stia succedendo, poiché proprio nelle suddette regioni le proteste di Hong Kong potrebbero trovare facili emuli.
Inoltre la Cina sta realizzando la Greater Bay Area, una enorme zona economica e finanziaria che comprenderebbe anche Hong Kong e sarebbe in grado di rivaleggiare con le baie di San Francisco e Tokyo. A questo scopo è necessario che Hong Kong sia ulteriormente integrata con la terraferma e non è un caso, infatti, che importanti collegamenti terrestri siano già stati realizzati.
Un futuro incerto e la discesa dell’indice Hang Seng
Lunedì 24 ottobre, quando ci siamo svegliati con l’indice principale della Borsa di Hong Kong, l’Hang Seng, precipitato di oltre il 6 % in poche ore, molti operatori hanno cominciato ad interrogarsi sulle cause di questa discesa, andando come sempre alla caccia di un colpevole, dimenticandosi forse che questo declino non è cominciato poco tempo fa.
Infatti il massimo storico dell’indice era stato raggiunto il 29 gennaio 2018 a 33.500 punti: poi, proprio nel 2019, il presidente statunitense Donald Trump aveva firmato la “Legge sui diritti umani e la democrazia a Hong Kong”, un documento che sanciva una presa di posizione diretta su Hong Kong da parte degli Stati Uniti. Da allora, ricordiamo bene, tante proteste (gli ombrelli colorati) che rimandano a una realtà di aperta opposizione politica a cui raramente si è assistito nella Cina contemporanea. Le proteste iniziate il 9 giugno 2019 contro un emendamento alla legge sulle estradizioni, “ufficialmente” poi ritirata, si sono trasformate in un’opposizione all’ingerenza sempre più accentuata di Pechino nell’autonomia di Hong Kong.
Questa situazione e il timore di una integrazione tutt’altro che soft da allora pesa sui mercati. Sull’Hang Seng sono quotati tutti i colossi cinesi acquistabili anche dagli investitori di altri paesi, e adesso questo indice vale meno della metà, circa 15.000 punti ed è ai minimi degli ultimi 10 anni.
L’ultimo indiziato
Il Congresso nazionale del Partito comunista cinese si è concluso il sabato precedente il 24 ottobre e ha sancito un inedito terzo mandato per il Presidente Xi Jinping. Le aspettative degli analisti sull’esito erano alte ma sono state deluse, già durante il suo svolgimento, dalla misteriosa mancata pubblicazione dei dati aggiornati sul P.I.L. alimentando ulteriori preoccupazioni.
Vista l’assenza di annunci di misure incisive capaci di dare un assist all’economia, e quindi con il timore che la crescita economica possa per il futuro rallentare, sacrificata a favore della ideologia politica, gli operatori hanno così venduto indiscriminatamente. Poi, anche l’assenza di indicazioni precise per le riaperture post-Covid non ha aiutato.
Cosa fare adesso: comprare o continuare a vendere?
Il mercato delle attività cinesi, quello offshore disponibile a tutti gli investitori, rimarrà sicuramente ancora molto volatile nelle prossime settimane, ma per chi avesse delle esposizioni importanti questo non è forse il momento migliore per vendere in quanto gli indici stessi, con la loro discesa repentina, hanno già messo in conto tutte queste preoccupazioni.
Le occasioni di acquisto soprattutto in questi momenti non mancano, e negli anni abbiamo ormai imparato che in Cina, più che nelle altre parti del mondo, la politica e la finanza non sempre vanno a braccetto.
Il fatto che il Congresso abbia mostrato una linea “dirigista” infatti può anche avere dei risvolti positivi in quanto una leadership più unificata potrà comunque permettere una esecuzione ancor più rigorosa dei programmi. Ad esempio restano tutti confermati gli impegni a sostegno della transizione energetica, con la politica della riduzione delle emissioni di carbonio sempre in primo piano.
Fra i comparti da privilegiare quindi ci sono i veicoli elettrici (due grandissime aziende produttrici, Geely Automobiles e Great Wall Motors sono quotate sull’indice Hang Seng), e i titoli legati alla sostenibilità e ai materiali da costruzione alternativi e non inquinanti, che potrebbero essere i potenziali beneficiari di rinnovate politiche ambientali.
Come dire…dal “Libretto Rosso” alla “Agenda Verde”!